L’ultimo viaggio

Dic 11, 2018

A volte li udiva gridare. Capitava soprattutto quando – misteri del traffico – arrivava troppo in anticipo, così in anticipo che la guardiola era chiusa e allora doveva entrare, parcheggiare la motrice e camminare fino all’edificio principale, fino agli uffici aperti ventiquattr’ore su ventiquattro così vicini (attaccati, in realtà) al macello.

Fu così anche quel mattino, con l’alba in cielo che era solo una passata di blu sul nero, un’unghia di luna e Venere (o quel che era, magari una stella, Giove, chissà che altro) che ci pencolava sotto. Il parcheggio era una lastra di ghiaccio e un paio di altre motrici ronfavano, come lui, in attesa del rimorchio da riportare entro mezzogiorno zeppo di condannati. Perché questo erano: condannati. Lui che si era sempre fatto beffe di vegetariani e vegani, lui che da anni trasportava mucche, buoi, vitelli e maiali, un giorno di fine estate era in autostrada verso casa di Laura e a metà di un sorpasso aveva guardato a destra, tra le barre di alluminio e dentro il buio, a incrociare gli occhi increduli di una bestia.

Potendo, avrebbe cancellato per sempre quel giorno. L’avrebbe proprio spazzato via dai ricordi, e non solo per la sorella e le condizioni in cui l’aveva trovata – calva, silenziosa, gli occhi spalancati su di un nulla imminente e vorace di cui lui era improvvisamente consapevole – ma per ciò che gli aveva lasciato: l’orrore. L’orrore per se stesso e ciò che faceva per vivere.

Da quel giorno, la domanda: “lo sapevano, che stavano per essere ammazzati e macellati?”. A volte pensava di sì, altre volte si diceva ch’era impossibile. Delle due, però, nemmeno a lui era chiaro quale fosse la prospettiva più spaventosa: che gli animali, tutte quelle povere bestie, sapessero e dunque vivessero le ore di trasporto in uno stato di terrore oppure, al contrario, che docili e piene di fiducia potessero in qualche modo “pensare” di andarsene a spasso, magari verso campi verdi e una sistemazione meno infame delle gabbie da cui leccare il sale…