That night

Dic 25, 2017

Esausto, letteralmente.
Esausto e dolorante.
Se solo il vento fosse calato… Ma il gigante là fuori non ne voleva sapere: rombava, fischiava, ruggiva, e il tarp sembrava dover spiccare il volo da un momento all’altro.
Tutto questo, perché?
“Per trovare qualcosa che nemmeno sappiamo cosa sia.”
Guardò il termometro che segnava tre sotto zero. Fuori, forse, dieci o dodici di meno.
Era così che avevano concordato lui e Kurt al tavolo dell’emporio, trenta secondi prima che Kurt levasse il boccale e annunciasse che se ne tornava indietro. “Eh già, siamo alla ricerca di qualcosa che non sappiamo nemmeno cosa sia. By the way, amico mio, I think I’ll go back home for Christmas”.
Furbo, Kurt.
Kurt al caldo a mangiare ciambelle all’aeroporto, Kurt a far Natale coi suoi da una finestra illuminata. E lui? Testardo, testardo, testardo! Che ci faceva lì da solo a tre giorni da Natale? Adesso lo sapeva cosa stava cercando e voleva: un caffè, ecco cosa; un caffè, una ciambella e un aeroporto fitto di luci e gonfio di voci e musichette. Magari con un aereo pronto a riportarlo indietro.
E invece il riso cuoceva nella pentola e la fiammella blu del fornelletto pareva fredda come ghiaccio. Perché non aveva fatto come Kurt?
Lo sconforto lo piegò. Fu un attimo, un solo e brevissimo istante in cui sperimentò la sensazione di capitombolare all’indietro fino a trovarsi sdraiato al caldo sotto i rami di un abete, immerso nel profumo di resina tra luci di mille colori che pulsavano davanti al suo naso…

Si riscosse con uno scatto, respirò a fondo e si aggiustò a gambe incrociate. I rami dell’abete, le vecchie file di lucette, voci che lo raggiungevano dalla cucina dove i grandi parlavano di chissà cosa mentre lui se ne stava con la testa vuota e il petto gonfio d’aspettativa per ciò che sarebbe venuto…
Scuoté la testa e inspirò a fondo. I tendini gli mandavano fitte lancinanti ogni volta che muoveva i piedi. Si guardò le mani che erano gonfie e screpolate e gli venne da piangere. E poi quel freddo terrificante che gli si arrampicava su per la schiena: perché non aveva fatto come Kurt? Perché lo rimpiangeva solo adesso ch’era troppo tardi, l’ultimo volo partito e lui a un giorno dalla stazione di posta, un giorno più lontano da tutto e più vicino a niente? Perché non poteva fare come gli altri? Una ragazza, un lavoro, un cane e una casa, un paio di bambini e la spesa il sabato, la corsetta la domenica e le feste coi parenti? Era poi così orribile? Cosa c’era, appena oltre la tela del tarp, ad attirarlo nel nulla? Cosa c’era nella notte e nel gelo, nella solitudine feroce e in quell’orribile percezione d’impotenza, a chiamarlo da un’avventura all’altra?
Guardò nella pentola, lo stomaco gli si contorse, poi spense la fiamma e tuffò il cucchiaio nella poltiglia.
Ebbe la forza di mangiare metà razione, poi il freddo lo vinse e lui si accoccolò su un fianco e si addormentò.

Quando si svegliò l’orologio diceva che era da poco passata la mezzanotte. La prima cosa a colpirlo fu il silenzio, la seconda il tepore che gli rianimava il corpo: il vento era svanito e la temperatura risalita. Una luminescenza vaga filtrava attraverso la tela spandendo un vago chiarore tutt’intorno.
Si rimise in ginocchio e scoprì che il dolore ai tendini era quasi scomparso, appena un’eco. Allora sgusciò fuori del tarp per ritrovarsi immerso in una marea di luce.
Fece un passo, un altro, raggiunse un risalto di roccia e lì sedette col naso all’insù, a guardare l’aurora boreale che cantava e danzava proprio sulla sua testa.
Poco dopo era ancora così quando un movimento catturò la sua attenzione insieme a un intenso odore muschiato: un piccolo branco di renne, di solito così schive, sfilava a pochi metri dall’accampamento. Anche loro – saranno state sei o sette in tutto – sembravano ammaliate dallo spettacolo. Fu l’ultima l’unica a dar segno di aver notato l’intruso. Stava per passare oltre quando si immobilizzò, frugò nel ghiaccio, masticò un po’ di licheni e sollevò il muso a fissarlo negli occhi. Fu un attimo, poi l’animale sbuffò e con due balzi raggiunse il gruppo. Una bava di vento scuoté allora il tarp e qualcosa tintinnò con un suono argentino, gioioso.
Quando gli animali furono svaniti, anche lui si tirò in piedi. La neve riluceva di un colore indefinito; le sete drappeggiate in cielo si specchiavano su un lago lontano.
Tornò al riparo, trovò la forza di cambiarsi, e di nuovo si addormentò.

L’indomani brillava il sole, e fu proprio il sole a chiarirgli quanto avesse bisogno di tornarsene indietro: impiegò meno di un’ora a realizzare d’avere vagato in un ampio cerchio che l’aveva allontanato dall’emporio della stazione di posta di pochi chilometri.
Alle dodici era di nuovo al bancone dove aveva salutato Kurt.
In contrasto con quanto gli avevano detto due giorni prima, anche quel giorno c’era un piccolo aereo in attesa di decollare. Non perse tempo a cercare spiegazioni: pagò e occupò il posto accanto al finestrino, salutò la tundra dall’alto e si addormentò nella vibrazione dei motori.
Sei ore dopo mangiava ciambelle e beveva caffè.
Altre dodici ore e superò il controllo passaporti, uscì dal terminal, e lacrime gli si gonfiarono negli occhi alla vista della figura curva, bianca e sorridente del padre.
In auto si addormentò nel vano sforzo di far quadrare i conti, stupito dalla relatività delle distanze: aveva camminato per sessantadue giorni verso nord attraversando steppa e tundra, monti e laghi, fiumi e valli solitarie, e quando poi aveva smesso di opporsi alla corrente erano bastati tre voli e diciotto ore per riportarlo a casa.

I parenti sarebbero arrivati più tardi.
Sua madre, i nonni, e sua sorella lo abbracciarono a lungo, lo spedirono a farsi una doccia e poi, semplicemente, gli dissero di farsi un riposino.
Allora lui accese il fuoco nel caminetto, si sdraiò sul divano, posò la testa sul bracciolo e rimase per un po’ così, senza pensare a nulla, a respirare la resina e spiare il soffitto tra le vecchie luci natalizie, proprio come faceva da piccolo, proprio come aveva sognato di fare quando aveva per un istante perso conoscenza nel tarp.
Era a casa, e come capì poco prima di scivolare nei sogni, non avrebbe voluto essere in nessun altro luogo. Anche se era un miracolo come ci fosse arrivato in tempo per la vigilia di Natale visto che, quando aveva salutato Kurt, era già il ventidue. Mancava un giorno all’appello o, meglio, era come se un giorno gli fosse stato regalato. Da chi o cosa non lo sapeva. Forse erano solo i ricordi che si confondevano per la prostrazione, o forse aveva fatto un gran casino e basta.
Ripensò alla tempesta, al vento caduto d’improvviso, all’aurora boreale e alle renne. Sorrise e si addormentò.

Più tardi, a cena, erano in dodici intorno al tavolo. Una vigilia così non la facevano da anni.
In tanti gli chiesero dei suoi viaggi e lui scoprì di avere poco da dire: sarebbe ripartito, di questo era certo, e l’avrebbe fatto a breve, ma per il momento era lì che si trovava, quello l’unico posto dove avrebbe voluto essere, e anche se non era a migliaia di chilometri dal resto del mondo, né un giorno più distante da tutto o uno più vicino a nulla, in fondo, per una volta, andava bene così.

per The Walking Robin

Buon Natale