Delfini

Set 12, 2017

Arrivai sull’isola al mattino presto e l’isola da subito non mi piacque. Era uno scoglio piatto, brullo, inclinato come una portaerei sul punto di colare a picco anche se lì, lo sapevamo, erano altre le barche che andavano a fondo.

Di ciò di cui tutti parlavano e scrivevano noi non ci accorgevamo. Vedevamo incrociare al largo le navi della marina, ogni tanto sentivamo nelle orecchie la percussione delle pale degli elicotteri e altre volte, dal porto, partivano le motovedette della Guardia Costiera. Ma era routine e non ci facevamo caso.

C’erano gli squali, dicevano, ma a me non era ancora capitata la fortuna di vederli; e c’erano i delfini, garantivano, ma nemmeno quelli avevo ancora visto.

Quel giorno uscimmo all’alba con sei clienti. Il mare era grosso e il cielo livido, ma i proprietari non vollero rinunciare ai sovrapprezzi per l’uscita al largo e così, quando arrivammo sul punto GPS, intorno a noi c’era solo mare, e onde alte color del piombo. Era agosto ma pareva febbraio, ci preparammo e saltammo in acqua.

Vagammo sulla secca tra dentici e cernie mentre la luce svaniva, risucchiata via dalla tempesta. Ogni tanto guardavamo in su e dal fondo scorgevamo gli arabeschi della pioggia sul pelo dell’acqua. Poi cominciarono i lampi e io, che avevo la responsabilità del gruppo, mi misi a guardare l’orologio con impazienza e a controllare ogni venti secondi che la chiglia della barca fosse rassicurante sulle nostre teste.

Mancavano dieci minuti quando arrivarono i delfini. Era da un po’ che tenevo d’occhio una massa di detriti galleggianti (a volte se ne incontrano, di solito scaricati dai pescherecci) sperando che la barca non avesse problemi, ma dei detriti mi dimenticai quando il branco si avvicinò nel blu. Erano dozzine, piccoli e adulti, e nuotavano placidi verso profondità a noi proibite. Restammo incantati ad ammirarli finché sfilarono negli abissi e la cosa che mai dimenticherò è come a loro volta guardassero noi, occhi carichi d’intelligenza che mi trasmisero un’infinita tristezza, una quieta rassegnazione. Fu un’emozione intensa che mi avvolse il cuore di una pace non del tutto comoda. Poi fu il momento di risalire e cominciammo la decompressione.

Quando emergemmo la barca era vicinissima, imbizzarrita su onde alte un paio di metri. Risalire a bordo fu un’impresa che il silenzio rese surreale. Ero l’ultimo, ovviamente, ed ebbi tempo di osservare i miei colleghi aiutare i clienti. Capivo il vento, le onde, la pioggia e lo stress, ma dell’euforia di quei ragazzi non rimaneva traccia, l’abbronzatura stessa si era ritratta dai loro volti esangui. Poi fu il mio turno e fui a bordo.

– Abbiamo chiamato la Capitaneria – mi disse uno con la faccia stravolta.  Io guardai il mare, i subacquei ancorati ai loro posti ed entusiasti, e aggrottai le sopracciglia: – Non mi sembra così grave.
Quello strabuzzò gli occhi: – Non li avete visti?
– I delfini? – dissi io con un sorriso un po’ incerto.
– I corpi. – rispose lui. – Cristo Santo, i corpi.

Fu la tragedia peggiore mai accaduta. Più di trecento vittime nessuna delle quali, forse a causa della tempesta, fu mai ripescata. Erano del barcone i detriti che avevo scorto e quanto ai corpi, che i miei colleghi avevano visto inabissarsi, non so che dire. Noi incontrammo un branco di delfini, ed è questo che continuerò a credere, che da qualche parte, chissà dove, vi sia un Dio buono che ha trasformato quei poveri disperati in creature splendide e innocenti che del mare non avranno mai più paura.