11/7/1982

Lug 11, 2017

Avevo nove anni e vivevo a Bologna. Tra fine giugno e inizio luglio passai due settimane in “colonia” (ai tempi qualcuno la chiamava ancora così) sui colli, a parco Cavaioni. Prima di partire ricordo mio padre dire a me, forse a qualcun’altro, che Brasile e Polonia erano brutte bestie. Giorni dopo giocavo a calcio sotto il sole insieme ad altri ragazzini. Qualcuno però stava dentro, dove c’era la televisione, e ogni tanto correva fuori a dar voce. Magari erano brutte bestie, e non che a me importasse chissà che, ma due a zero e poi tre a due, allora anche noi eravamo bestie.

Poi la vacanza finì ed eccoci alla tensione di quella serata così calda. La TV era un Germanvox di plastica bianca, in bianco e nero, con le valvole (o i transistor, o quello che era) che ci mettevano mezzo minuto a scaldarsi. Io, mio papà e mia mamma ci piazzammo davanti alla TV e la gatta, invece, sopra. Cominciò la partita.

L’aria era ferma, la finestra spalancata, la città muta. Mia madre ogni tanto s’affacciava, sbirciava di qua e di là, e si voltava con gli occhi spalancati: “vieni a vedere, senti qua, non c’è nessuno non vola una mosca”. Quando Cabrini sbagliò il rigore disse che era fatta, che un’occasione del genere, sprecata, era peggio che una condanna. Io non mi preoccupai, più che altro perché nemmeno capivo cosa intendesse. Poi accadde tutto. Tre boati nello spazio di 90 minuti, tre rombi che attaccavano come tuoni lontani ed esplodevano come bombe atomiche. Non c’erano parole, non erano frastagliati di incitazioni o commenti o che: ciò che centinaia di migliaia di persone avevano compresso nel petto per minuti, giorni, forse anni, d’improvviso si liberava come un animale selvaggio: “UOOOOHHHHHHH”.

Quando il loro portiere, verso la fine, andò a contrastare Rossi fuori dell’area, a me parve una cosa insensata. – Papà, perché fa così? – domandai. – Perché è importante, Andrea, è la finale; ci tiene, fa quel che può.

Stranamente non ricordo il momento del fischio finale, ma ricordo che i miei decisero di andare a festeggiare in centro. Sull’autobus nessuno pagò il biglietto. Già dalle prime fermate era strapieno, con i grandi finestrini aperti (allora si poteva) e gente mezza dentro e mezza fuori che urlava salutava sorrideva e sventolava bandiere. C’era pure chi fumava, e si sudava e ci si spingeva, ma a nessuno importava d’altro che non fosse fare festa.

E di nuovo, chissà perché, non ricordo cosa accadde dopo, in centro. Vaghe immagini di bandiere, forse Piazza Maggiore, e poi il rientro, che visto che non c’erano più autobus ci facemmo a piedi. A un certo punto mio padre mi prese sulle spalle; a un certo punto cominciò a piovigginare.

Eravamo Campioni del Mondo, e quel poco che ricordo e che ho appena scritto, lo ricordo con un’intensità intoccata e inviolabile. Forse perché ero così giovane, ma forse anche perché eravamo diversi: più sani, più semplici, più disposti ad abbandonarci a una gioia condivisa dimenticando per una notte ogni altra questione. Rispetto a oggi eravamo tanto più ingenui, su questo non c’è dubbio, ma credo che ci fosse dell’altro: che in qualche modo, per qualche motivo, rispetto a oggi eravamo anche tutti un po’ più italiani.